20 agosto 2013

MERCOLEDI h 21

DOCUMENTARIO

TERRA NERA
un documentario di Simone Ciani e Danilo Licciardello

info: terranera.info 
Il land grabbing è l’accaparramento delle terre da parte di Stati, investitori locali, internazionali o transnazionali. Il fenomeno si estende all’intero pianeta dove, con il beneplacito della Banca Mondiale e di politiche corporate-friendly, milioni di ettari di terreni e di risorse naturali vengono ceduti alla speculazione. Un fenomeno che ha subito un’accelerazione in questi ultimi tempi, tanto che, in tre anni, secondo la FAO, solo in Africa sono stati venduti 20 milioni di ettari di territori.
Le sabbie bituminose (tar sands) sono depositi di sabbia e argilla satura di bitume ovvero petrolio allo stato solido o semi-solido. La lavorazione delle sabbie bituminose genera diversi agenti chimici altamente nocivi: idrocarburi policiclici aromatici, mercurio, arsenico, acido naftenico e diossido di azoto. La produzione di un barile di petrolio da sabbie bituminose richiede mediamente l’utilizzo da 2 a 4,5 barili di acqua e rilascia nell’atmosfera, secondo la tecnica di lavorazione impiegata, tra il 17 e il 23 % di gas ad effetto serra in più rispetto a un barile di petrolio convenzionale, oltre a causare ingenti livelli di inquinamento delle acque e della terra.
Sono passati i tempi in cui ci potevamo permettere di pensare al petrolio come un input a basso costo per la crescita economica e sociale, senza tener conto dell’impatto sull’ambiente e sulle generazioni future
Paolo Scaroni, Amministratore Delegato Eni – discorso all’United Nation Leadership Forum on Climate Change, Nazioni Unite – New York, 22 settembre, 2009
CANADA
In Canada i nativi conoscevano le “sabbie bituminose” dalla notte dei tempi e le utilizzavano per rendere impermeabili gli scafi delle canoe. Da oltre 50 anni nello stato dell’Alberta multinazionali del calibro di Shell, Exxon, Chevron e Total sfruttano le tar sands su scala industriale, con conseguenze devastanti per l’ecosistema.
Gli abitanti di Fort Chypewyan e delle terre confinanti con le zone di sfruttamento delle tar sands si ammalano con una frequenza tripla rispetto alla media a causa dell’inquinamento delle falde acquifere. I pesci hanno da tempo maturato malformazioni e danni genetici, negli animali si rilevano tassi altissimi di metalli, in diverse zone è proibito l’uso dell’acqua dei fiumi e dei laghi e vengono regolamentati i consumi individuali di pesce e di carne locale. Dove prima c’erano foreste, ora ci sono crateri di terra arida ed enormi bacini che raccolgono gli scarti di lavorazione. Lo stato dell’Alberta, unico posto nel mondo dove viene portato avanti lo sfruttamento su larga scala delle sabbie bituminose, sta andando incontro a disastri ambientali su larga scala: gravi processi di deforestazione, distruzione di preziosi habitat naturali, rapido impoverimento delle risorse idriche, contaminazione delle falde acquifere nonché l’insorgere di malattie e tumori rari nella popolazione dei territori interessati. Paradossalmente, proprio a causa di questo processo, il Canada sta mettendo a rischio la propria sicurezza energetica dato che le riserve di gas metano, utilizzato per l’estrazione e il processamento delle sabbie, stanno terminando.
L’Athabasca Chipewyan First Nation assieme ad altre comunità di nativi è attualmente protagonista di una lotta di resistenza contro l’espansione delle concessioni, in particolare quella della Shell. Questa lotta in continua crescita vede l’insorgere di movimenti indigeni sostenuti da associazioni ambientaliste e organizzazioni civili di tutto il territorio nordamericano riunitesi negli ultimi mesi sotto il nome di Idle No More.
CONGO

Nel maggio del 2008 la multinazionale italiana Eni, una tra le dieci principali compagnie energetiche del mondo, ha siglato un accordo confidenziale con il ministero dell’Energia del Congo che prevede un investimento di 3 miliardi di dollari per avviare la ricerca e lo sfruttamento di olii non convenzionali in sabbie bituminose in un’area di 1790 chilometri quadrati nella regione di Kouilou.
Il bacino del fiume Congo è uno dei più ricchi ecosistemi del pianeta; ospita una delle principali foreste del globo, “polmone” del clima mondiale e regolatore del clima della regione. Eni ha dichiarato pubblicamente che nessun progetto coinvolgerà la foresta pluviale e le aree ad elevata biodiversità né comporterà il trasferimento di popolazioni, fornendo rassicurazioni riguardo alla localizzazione delle sabbie bituminose che – secondo Eni – sarebbero state trovate nella savana. Eppure studi della compagnia stessa hanno rilevato che dal 50 al 70 % della zona di concessione per le sabbie bituminose sono occupate da foreste e zone altamente sensibili della biosfera.
Tre guerre civili, succedutesi tra il 1993 e il 1999, hanno distrutto larga parte delle infrastrutture del paese, provocando un netto deterioramento delle sue potenzialità economiche e il precipitare degli indicatori sociali di sviluppo. Secondo la Banca mondiale, almeno il 54,1% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, ma le stime non ufficiali parlano di almeno il 70%. Si calcola che un abitante su cinque soffra di malnutrizione e che solo un quarto della popolazione abbia accesso all’energia elettrica. A Pointe Noire, la capitale del petrolio, manca spesso l’energia e quasi tutte le abitazioni e gli esercizi commerciali producono energia con generatori a diesel. Ironia della sorte, il Congo è il settimo produttore africano di petrolio, che nel 2009 ha rappresentato circa il 67% del PIL e più dell’90% delle esportazioni del paese.

La conquista della terra, che sostanzialmente consiste nello strapparla a quelli che hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato,
non è una cosa tanto bella da vedere, quando la si guarda troppo da vicino
Joseph Conrad, Cuore di tenebra

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